Due organizzazioni di cooperazione padovane hanno aderito all’appello di In marcia per il clima e ci hanno scritto il perché:
ACS (Associazione di Cooperazione allo Sviluppo) realizza progetti di cooperazione allo sviluppo in ambito rurale, con le popolazioni contadine della Palestina, di Bratunac (Bosnia Erzegovina), della Repubblica Democratica del Congo, del Marocco, del Perù, della Bolivia e di altri Paesi impoveriti. Nelle campagne di questi territori si vedono chiaramente i meccanismi che generano gli squilibri e le disuguaglianze tra i popoli e tra le classi sociali.
Da una parte sono incarnati nelle politiche degli Stati, che relegano l’agricoltura ai margini e non favoriscono lo sviluppo dei territori e delle comunità (mancano i servizi di base alla popolazione rurale, le scuole tecniche e professionali, l’accesso al credito, una rete di trasporti e di comunicazione che connetta in maniera trasparente i produttori con le industrie di trasformazione e con i mercati finali), causando prima l’esodo, soprattutto dei giovani, verso le città, e poi l’emigrazione verso altri Paesi e continenti.
D’altra parte ulteriori squilibri sono creati dall’uso dissennato del territorio a livello globale, che non tiene conto dei ritmi naturali di ripristino delle risorse naturali: deforestazione selvaggia, eccessivo prelievo idrico, sovrasfruttamento dei terreni; e dal peso, in termini di inquinamento, di cementificazione (mancato drenaggio delle acque), di riscaldamento dell’atmosfera e di necessità alimentari (compresi gli scarti!) delle aree urbane.
L’effetto serra è il “combinato disposto” di questi meccanismi, è la conseguenza della rottura dell’equilibrio di rapporti tra l’uomo e la natura avvenuto negli ultimi secoli, e nelle campagne dove noi lavoriamo si manifesta con la desertificazione di vaste zone, con la riduzione dell’acqua disponibile per l’irrigazione, con la modifica dei ritmi dei venti, delle piogge e delle gelate invernali, con il paradosso della diminuzione delle aree disponibili per la coltivazione e il contemporaneo aumento delle aree abbandonate.
A Bratunac gli orti di lamponi sono irrigati in gran parte solo con la pioggia, dato che il costo dei sistemi irrigui non è sostenibile per famiglie con redditi di 200-300 euro al mese, e la siccità del 2005 ha ridotto la produzione di oltre il 30% (la vendita dei lamponi costituisce spesso l’unica fonte di reddito).
A Jenin, il “granaio” della Palestina, non piove da oltre quattro mesi, e ora arriverà l’estate, ancora più secca. I contadini lo scorso inverno avevano piantato i ceci tra le piante di mandorlo e di ulivo per fare il sovescio (interrare le piante nella fase di prefioritura per nutrire la terra) e contavano sul raccolto dei cereali per la propria alimentazione. Ma il frumento senz’acqua stenta, il raccolto non sarà sufficiente per mettere da parte le sementi per la prossima semina e per mangiare e così, invece di effettuare il sovescio, i ceci saranno utilizzati per integrare la dieta di base.
Essere a Milano è quindi parte dell’impegno che abbiamo preso con i contadini palestinesi e bosniaci, perché non ci sarà futuro (né per loro, né per noi) se non ripristiniamo l’equilibrio naturale.
Ecco la lettera di Karibù:
Nell’immaginario collettivo l’Africa rimane il continente misterioso, il continente degli ampi orizzonti, dei paesaggi incontaminati. Molti continuano ad ignorare come i nuovi processi demografici e di urbanizzazione forzata abbiano scavato profonde ferite in questo paesaggio e dato vita ad enormi agglomerati urbani, megalopoli caratterizzate da ampi squilibri sociali ed ambientali, strutturalmente insostenibili e prive di ogni legame virtuoso con il proprio territorio.
La natura di questo genere di insediamenti avrà un impatto sempre più negativo sull’ambiente visto il trend con il quale il loro numero e la popolosità continua ad aumentare.
A Nairobi, la città che ospita le più popolose baraccopoli dell’Africa Occidentale, esistono ampie zone che sulle carte geografiche risultano come parchi cittadini: Kibera National Park, Mathare Valley… e che in realtà sono insediamenti informali, costruiti di lamiera e plastica e all’interno dei quali vive stipata più della metà della popolazione cittadina.
La mancanza di servizi e di una cultura di tutela dell’ambiente genera fenomeni preoccupanti, uno dei quali è l’accumulazione incontrollata e l’incendio dei rifiuti, pratiche che rendono irrespirabile l’aria dell’intera città, favorendo l’insorgere di malattie respiratorie e trasformando l’acqua piovana in un conduttore di scarti chimici.
Alcune associazioni di base attive nelle diverse baraccopoli hanno dato vita a progetti di raccolta rifiuti, di sensibilizzazione e di riciclaggio, in uno spirito perfettamente in sintonia con quello espresso nell’appello delle associazioni promotrici della marcia per il clima: “Spetta dunque a noi sollecitarle e soprattutto operare una conversione di civiltà”.
Interessante l’esperienza di “Why not?”, una delle associazioni di Mathare impegnate su questo fronte. Il suo lavoro si concentra nel diffondere una cultura di raccolta dei rifiuti, assente là dove il degrado ambientale ha reso normale il loro abbandono incontrollato ed ha radicato la convinzione che qualsiasi spesa per questo servizio sia un inutile spreco delle proprie risorse, già limitatissime.
Why Not? è sostenuta dall’attività di Zindua Afrika (Risvegliati Africa, in lingua swahili), associazione che opera nel quartiere di Kayole dove è attivo un progetto di riciclaggio. In questo caso il progetto è nato grazie alla formazione fatta da un gruppo di ingegneri ambientali italiani http://www.karibuafrika.it/ che ha trasmesso agli operatori dell’associazione keniana le competenze per dar vita ad un progetto sostenibile, sia dal punto di vista ambientale che economico. In questo momento l’attività di riciclaggio ha raggiunto una portata tale da permettere all’associazione di utilizzare i soldi del ricavato per sostenere i propri progetti in ambito sociale.
Tatjana Bassanese – ACS
Giulia Comirato – Karibù