Cattive notizie dalle carceri italiane

Nelle carceri italiane i detenuti si tolgono la vita con una frequenza 19 volte maggiore rispetto alle persone libere e, spesso, lo fanno negli istituti dove le condizioni di vita sono peggiori, quindi in strutture particolarmente fatiscenti, con poche attività mentali, con una scarsa presenza del volontariato. La spiegazione per la maggior parte dei suicidi che avvengono nelle carceri, sta nel concetto di “perdita di ogni speranza”. Dalla ricerca di “Ristretti Orizzonti” emerge che l’elemento che paradossalmente accomuna i suicidi di coloro che sono stati appena arrestati con quelli che stanno per finire la pena è la mancanza totale di prospettive, seppure in situazioni molto diverse tra loro.
Altre particolarità emerse sono che si uccidono più gli italiani che gli stranieri, i tossicodipendenti rappresentano il 31% dei suicidi, e si uccidono con più frequenza da “definitivi” e, addirittura, in vicinanza della scarcerazione. L’ingresso in carcere e i giorni immediatamente seguenti sono un altro momento nel quale il “rischio suicidio” appare elevato, non solo per i tossicodipendenti: i detenuti per omicidio, il 2,4% della popolazione carceraria, rappresentano ben il 13% dei casi di suicidio esaminati. Alcuni eventi della vita detentiva, poi, sembrano funzionare da innesco rispetto alla decisione di “farla finita”: il trasferimento da un carcere a un altro, l’esito negativo di un ricorso alla magistratura, la revoca di una misura alternativa, la notizia di essere stati lasciati dal partner, etc.. Circa un terzo dei suicidi aveva un’età compresa tra i 20 e i 30 anni.
Messi a fuoco i problemi non è così difficile capire quali possano essere le strade percorribili per ridurre al minimo il rischio che un detenuto si uccida. Basterebbe tutelare maggiormente la dignità sociale delle persone incarcerate nell’attesa del processo; inoltre bisognerebbe migliorare molto la qualità della pena in quanto il carcere non riesce spesso a svolgere la funzione rieducativa che l’art. 27 della Costituzione gli assegna. Infine si dovrebbe avviare un processo di reinserimento del detenuto nella società al termine della pena perchè, purtroppo, dove non arriva il volontario c’è il vuoto.
Non sempre però i suicidi in carcere deriverebbero da una reale determinazione a “farla finita”. A volte hanno origine da un finto suicidio andato male. Esistono poi anche le morti per “cause non chiare” e per overdose. Nelle rassegne stampa infatti si trovano diverse notizie riguardanti procedimenti penali contro agenti di polizia penitenziaria, accusati di aver provocato, direttamente o indirettamente, la morte di detenuti. Ma esiste il ragionevole sospetto che le denunce depositate in procura rappresentino solo la punta di un iceberg, dalle dimensioni difficilmente verificabili.
Infine, per quanto riguarda l’assistenza sanitaria bisogna dire che negli ultimi anni si è abbattuta una mannaia sulle risorse economiche destinate alle cure mediche dei detenuti e questo ha comportato per gli stessi conseguenze negative in termini di salute.
In Italia vi sono ancora troppe morti “non chiare” nelle carceri, e questo non è da paese civile. Questo è da paese dove vige la pena di morte!

Paola Marchetti – Ristretti Orizzonti