Parlar di guerra e pace

Sono stata recentemente in Palestina, dal 12 al 20 febbraio, e sento il dovere di scrivere qualcosa su quello che sta succedendo laggiù. La situazione nei territori occupati è molto tesa, come si può immaginare: non c’è lavoro, gli spostamenti sono resi difficilissimi dalla presenza di check point fissi e volanti, il muro avanza mostruoso, dividendo le abitazioni dai campi, i villaggi dai villaggi, addirittura in qualche caso passando nel mezzo di cortili condominiali.
Il muro ti accompagna sempre, con i suoi 9 metri di altezza, le torrette, il filo spinato.
Gravissimo il degrado del territorio: ruspe israeliane dappertutto, che scavano le colline per far posto ad un altro pezzo di muro o a nuovi insediamenti o ancora a nuove strade (per chi? per dove?). Ma anche incuria ed abbandono; la situazione economica è un disastro e mancano alle autorità locali i soldi per la riparazione delle strade, per lo smaltimento dei rifiuti … ma si avverte anche che la popolazione, soprattutto nelle città, si sta lasciando andare ad una sorta di disperata rassegnazione.
E aumentano l’insofferenza, anche per chi fa cooperazione, e a volte l’aggressività. Non sono ancora riuscita a ingoiare il magone per una “aggressione” a sputi e calci da parte di alcuni bambini di Hebron, una città che da anni sopporta al suo interno un insediamento di coloni israeliani: vero che la nostra jeep aveva targa israeliana, vero anche che sul retro c’era la bandierina italiana (che da un po’ di tempo, come è ovvio, non è più un lasciapassare)… però anche una anziana suora che da trent’anni sta a Ramallah e lavora con le donne ci ha detto che mai in tanti anni ha vissuto una tale tensione.
Questi sono i risultati della politica estera del nostro governo e di altri paesi, che hanno abbandonato il popolo palestinese e fingono di non vedere le gravissime violazioni quotidianamente operate dal governo israeliano e dall’esercito.

E tuttavia, incredibilmente, coloro che perseverano nella speranza pacifica di una vita decente sono tanti; soprattutto nei villaggi, dove la povertà si vede ma si vedono anche alberi ed orti, le donne hanno dentro di sè risorse straordinarie di volontà, di grinta, di capacità di guardare al futuro.
Credo che si debba sperare nelle donne, puntare su di loro, aiutarle a non essere rimesse nell’angolo. Sulle conseguenze del risultato elettorale nessuno si sbilancia, non perché non vogliano parlarne, ma perchè c’è attesa. Fiato sospeso un po’ per tutti, ma nessuno mette in dubbio il fatto che è stato in gran parte un voto di protesta contro la corruzione ed il malgoverno.
A Nablus abbiamo incontrato il nuovo sindaco, eletto come indipendente nelle liste di Hamas; è una persona cordiale (oppure dovrebbe essere un attore straordinario), non è integralista (gli ho porto la mia “immonda” mano di donna per giunta infedele e lui l’ha stretta con calore), è preoccupato di problemi concreti e pressanti (immondizie, paghe ai dipendenti…).
Come far capire qui da noi la complessità della società palestinese?
Anche in Israele le realtà sono tante e diverse.

A Gerusalemme, ad esempio, il conflitto si avverte ad ogni angolo di strada: lo vedi nella presenza massiccia di soldati, nel numero straordinario di ragazzi che girano col mitra a tracolla o la pistola nella tasca posteriore dei pantaloni, nell’ostentazione dell’appartenenza religiosa. Ma appena ti allontani dalla linea dello scontro la guerra scompare e la vita riprende una dimensione “normale”. Resta la povertà, la vistosa differenza di regime economico tra i villaggi abitati da cittadini israeliani ebrei e quelli abitati da cittadini israeliani arabi (però le tasse sono le stesse!).
Sono stati giorni faticosi sul piano emotivo: troppe cose da capire, troppo lontana la nostra vita quotidiana dalla violenza quotidiana di quei luoghi.
Porto con me tanti volti, tante parole ed anche una grande sensazione di insufficienza; ma soprattutto mi porto dentro l’emozione dell’incontro con due esponenti di Parent’s Circe, un israeliano ed un palestinese: facile parlare di pacificazione, di dialogo, ma quanti di noi riuscirebbero a lavorare per la pace assieme a chi ti ha ucciso una figlia, un fratello? Eppure 500 famiglie, parenti di vittime dell’una e dell’altra parte, si riconoscono nello stesso dolore e riconoscono il comune avversario nella politica dissennata di chi la guerra la vuole e la sollecita.

Mai come stando con loro, ascoltando le loro parole di pace, ho sentito che da una parte stanno i governi, gli eserciti, l’odio, e dall’altra i popoli, o almeno le persone, che sono capaci di sottrarsi alla spirale dell’odio e degli inganni religiosi e patriottici.
Oggi fra queste due parti c’è un abisso, speriamo non incolmabile.
C’è da lavorare molto qui, per arginare la deriva delle idee e l’assenza di informazione; noi siamo “piccole gocce”, ma non per questo dobbiamo mollare.

Gianna Tirondola, associazione per la Pace di Padova