Oggi ci si interroga con preoccupazione su che cosa può succedere al reattore 2 di Fukushima, fonderà? E’ già fuso, ma allora cos’altro può succedere? E’ bene subito chiarire che non solo il 2 ma anche altri due reattori sono sospetti di fusione almeno parziale del nocciolo, e che la distinzione tra "catastrofe locale" e "catastrofe globale", messa in auge dalla scala INES dell’IAEA, mostra qui tutto il suo carattere posticcio e giustificatorio.
Non doveva essere infatti la fuoriuscita della radioattività dallo schermo più esterno che contiene il reattore la catastrofe che, secondo il dogma della sicurezza nucleare, non sarebbe mai dovuta accadere? Così almeno affermavano i documenti dell’IAEA nelle conferenze di Columbus (Ohio) e Roma nel 1985, quando fissavano la probabilità di fusione del nocciolo in 10-5/10-6, cioè un incidente di quella gravità ogni centomila/milione di reattori funzionanti per un anno.
E per i giapponesi, con duecentomila persone evacuate nelle settimane scorse, lo iodio nell’acqua potabile e altri radionuclidi che hanno contaminato frutta e verdura anche a centinaia di chilometri dalla centrale, che altro deve succedere, quando, stando ai dati ancora parziali e reticenti, si può purtroppo ipotizzare che le vittime delle radiazioni saranno nel corso degli anni più di quelle dello tsunami?
Nella centrale di Fukushima ci sono sei reattori, e per tre sicuramente le barre di uranio del nocciolo del reattore restano, nonostante gli interventi, semiscoperte dall’acqua di raffreddamento. Gli interventi sono resi difficili dal livello di radioattività presente, a meno che non si vogliano sacrificare come a Cernobyl migliaia di "liquidatori", ma anche dall’inagibilità o perdita, a causa dello "scoperchiamento" della centrale, dei ponti mobili con i quali operare.
Interventi per seppellire in un sarcofago i reattori sono ugualmente problematici. In ogni caso, al di là delle ipotesi, il dato di fatto è la "strategia" che le autorità e i tecnici giapponesi stanno perseguendo: pompare tutta l’acqua che si può all’interno dei vessel che contengono i reattori. Uno dei nemici principali da fronteggiare è infatti la formazione e l’esplosione di bolle di idrogeno, dovute alla dissociazione dell’acqua nelle sue due componenti – idrogeno e ossigeno – resa possibile dalle temperature a cui si porta il nocciolo non raffreddato.
Quella strategia ha finora ritardato fuoriuscite di radioattività ancor più gravi delle prime, ma il problema è quanto reggeranno i vessel che sono il contenimento primario di un reattore e che devono avere dei punti di perdita dal momento che non si riesce a ripristinare il livello del refrigerante. Nonostante le perdite però la pressione cui è sottoposto il vessel sembra non scendere, proprio a causa del perdurare del surriscaldamento del nocciolo; e in reattori ad acqua bollente, come sono i tre su cui si interviene, la pressione cui può essere sottoposto il vessel deve stare di norma al di sotto delle quattro atmosfere.
Tra i dati che faticosamente affiorano sembra che proprio l’inadeguatezza del raffreddamento abbia fatto salire la pressione al di sopra delle tre atmosfere. Il raggiungimento del valore limite esporrebbe il vessel al rischio di esplosione, che libererebbe a questo punto enormi quantitativi di radioattività. Forse allora qualche autorità nucleare ci informerà, con la dovuta gravità, che si è raggiunto il livello 7 della scala INES, cioè Cernobyl. Che è come dire che la questione non riguarda più solo il Giappone, ma ci dobbiamo preoccupare un po’ tutti.